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Lessons in Humility settembre 17, 2013

Posted by brzo in Change!.
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new world

Le ultime mail arrancano nella posta in uscita, senza nemmeno rendermene conto anche oggi ho fatto tardi in ufficio.
Chiudo il portatile e raccolgo le mie cose, ma è passata da un pezzo l’ora di cena e non ha particolarmente senso affrettarsi.
Soltanto quando raggiungo il parcheggio noto che la mia è una delle poche auto in vista, quindi monto su, saluto con un cenno la guardia armata che passeggia davanti all’ingresso e sgommo via..

Piove ininterrottamente da stamattina, e l’intero quartiere industriale è privo di illuminazione, se non conoscessi a memoria il percorso sarebbe difficile orientarsi.
Per imboccare l’autostrada verso casa percorro velocemente le stradine semi-sterrate intorno alla fabbrica, gettando l’automatica occhiata in giro.
Il terreno costa poco da queste parti, di conseguenza la produzione si è installata nel peggior quartiere della città, dove sono frequenti assalti e sequestri-lampo.
Accelero per levarmi velocemente di lì, un paio di rampe per salire sulla rapida, e fatte poche centinaia di metri prendo un fosso.
Una buca scavata dalla pioggia e dai mezzi pesanti che riforniscono gli stabilimenti, comune nelle strade di periferia con poca manutenzione.

Uno schiocco secco e il volante prende a tirare penosamente verso sinistra.
Impossibile proseguire, termino la rampa e accosto.
Scendo e confermo i peggiori sospetti: pneumatico completamente a terra.
Richiamando all’attenzione una folta schiera di santi scendo sotto la pioggia e vado al bagagliaio, sistemo il triangolo di allerta, e prendo il necessario per cambiare la gomma.
Mi inginocchio in elegante completo gessato accanto alla ruota, ormai zuppo, e provo a smontarla guardandomi intorno nervosamente: nessuno in vista, a parte gli autocarri che sfrecciano a mezzo metro da me sollevando ventate di fanghiglia.
La stronza non viene via, nemmeno caricando sulla chiave tutto il mio considerevole peso.
La prendo a calci fino a stancarmi, non si allenta.

Torno in auto e chiamo un carro attrezzi: tempo di attesa per l’intervento tra i 60 e i 90 minuti.
Accendo una sigaretta e mi tornano in mente tutti gli omicidi avvenuti lì davanti, aneddottica scambiata alla macchinetta del caffè tra espatriati, statistiche per spaventare i nuovi arrivati, persino il collega sequestrato fino al bancomat poche settimane prima (e pestato perchè comunque è buona regola).
Sposto la carta di credito e una manciata di denaro sotto la camicia, il resto lo consegnerò senza battere ciglio.
Novanta lunghissimi minuti mi attendono.
E conto di trascorrerli tutti maledicendo questo paese, questa città, questa strada, e questa cazzo di macchina.

Dai finestrini non si vede assolutamente nulla, niente lampioni, ma non riesco a smettere di spostare lo sguardo da un retrovisore all’altro.
Il battere della pioggia sui vetri ed i motori che passano accanto sono gli unici suoni.
Sono passati soltanto pochi minuti, quando due fari alle mie spalle accostano e si fermano dietro di me, buttando giù il triangolo.
Scende qualcuno.

Non ha senso restare in macchina.
Vaffanculo.
Scendo anch’io.

Davanti a me c’è un ragazzo mingherlino, pantaloni scoloriti e una felpa sudicia, accanto ad un furgone malconcio.
Ho battito e respiro accelerati, e per quanto mi imponga la calma sento la voce tremare mentre lo saluto.
Avrà vent’anni, e mi squadra per un attimo prima di avvicinarsi anche lui, poi mi risponde altrettanto nervosamente.
Mi chiede indicazioni per l’altro lato della città, con un accento pesante che non identifico, e con infinito sollievo realizzo che deve essersi perso.
Replico che non sono di quelle parti, che non so aiutarlo, e mi volto per tornare in macchina.
Deluso, fa per fare lo stesso, ma apre la portiera ed esita.
Non sei brasiliano, mi dice, di dove sei?
Italiano, replico.
Cosa ci fai fermo qui?
Gomma forata.
Chiude la portiera e torna indietro.
Non dovresti stare qui, mi fa, è pericoloso.
Ti aiuto io, irmao. Ce li hai gli attrezzi?

Lo sto ancora fissando inebetito mentre glieli porgo, e finalmente col peso di entrambi sblocchiamo i bulloni della ruota.
Si allentano e lui mi guarda per un attimo: sbrighiamoci.
Gli passo il cric, e si inginocchia in mezzo al fango per sistemarlo sotto l’auto e sollevarla.
Terra e pioggia gli chiazzano gli abiti, e io mi sento mortificato mentre tento goffamente di dare una mano.
Continua a piovere, e veniamo continuamente investiti dalle ventate sudicie provocate dai mezzi che corrono alle nostre spalle.
Cambiamo la gomma continuando a lanciare occhiate intorno a noi, e per spezzare il silenzio mi dice che dell’Italia gli è sempre piaciuto Buffon, sai, il portiere.
Non riesco a trovare nulla di intelligente da replicare.
Piace anche a me, peccato stia invecchiando.
Torniamo a lavorare in silenzio.
Ci mettiamo appena qualche minuto, ma sembra un’eternità.

Appena terminato butto gomma e attrezzi nel bagagliaio, di corsa, chiudo e cerco di esprimergli la mia gratitudine.
Provo a ringraziarlo, trovando solo parole sconnesse per la sua gentilezza, e gli metto in mano una banconota.
Sgrana gli occhi e mi guarda sinceramente stupito, anche se non è una gran cifra, nemmeno un terzo del prevedibile conto di un carro attrezzi.
Me li stai dando perchè ti ho aiutato?, mi chiede in tono quasi offeso.
No, te li sto dando perchè io non l’avrei fatto.
Sincerità radicale, potremmo definirla.
Mi sorride, con quello che a me sembra uno sguardo di orgoglio, ricambio e gli stringo la mano.
Leviamoci da questo bairro, mi saluta, qui è pericoloso. E vai in borracharia a riparare la gomma.
Grazie, amico.

Ciao.

Salgo in macchina, e parto di scatto.
Lui fa la stessa cosa dietro di me, mi segue per un po’, poi un cenno dei fari e prende una laterale.
Una sigaretta, respiro a fondo, ho le mani coperte di gomma e terra e non riesco a tenere fermo l’accendino.

Percorrendo la strada verso casa ho tempo di riprendere il controllo, e pensare davvero a questo paese.
Dove un ragazzino che ha già poco lo rischia istintivamente per aiutare uno sconosciuto.
E lo considerà normalità, perchè la ricompensa è il gesto in sè, e forse il sapere che un giorno sarai dall’altra parte e qualcuno aiuterà te.
Una prospettiva irragionevole e aliena per un individualista come il sottoscritto.

In una strada buia, sotto la pioggia battente, nel peggior bairro di una città violenta, io non mi sarei fermato.
Ed improvvisamente mi rendo conto di quanto la mia sagace razionalità sia sopravvalutata, e di quante persone migliori di me ci siano in giro.
Entrato in casa, varcando la soglia accogliente e familiare del salotto, mi levo di dosso pensierosamente i vestiti fradici e mi ritrovo a ridacchiare..
Il mio bagno di umiltà.

Ho veramente molta strada da fare..

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1. Vittorio - settembre 18, 2013

Leggo questa storiella, anzi, favola, visto che di fondo c’è una morale, e mi rendo sempre più conto di una cosa: non siamo quello che mostriamo al mondo.

Concordo con te, nemmeno io mi sarei fermato, e se mi fosse capitata la stessa cosa probabilmente invece che una banconota gli avrei offerto addirittura una birra, per il gusto di farmi 4 chiacchiere e capire cosa avesse fatto scattare in lui l’idea di prendersi una lavata in un posto malfamato per aiutare uno sconosciuto fermo con una ruota bucata (che tra l’altro è uno dei modi più usati dai criminali, almeno qui, per fermare e rapinare i buoni samaritani che si fermano).

E lo avrei invitato a bere una birra perché son certo che, se il giorno prima un suo amico gli avesse chiesto se avrebbe fatto la stessa cosa, molto probabilmente avrebbe risposto “ma che, mi prendi per scemo? lì poi? che aspetti il carro attrezzi, se non sa guidare son fatti suoi”.

So di negare me stesso, ma spesso e volentieri mi rendo conto come di base l’uomo sia buono (io sono un fermo realista, quindi convinto per assunto della natura “cattiva” dell’essere umano), ma che mostri il lato distaccato e furbesco in nome di una figura societaria che, chissà come e chissà quando, è passata per la maggiore.

Ed è forse questo che, paradossalmente, ci frega: siamo buoni, giochiamo a fare i cattivi, e alla fine veniamo fregati dai nostri simili, che non sono malvagi, ma semplicemente giocano a fare i cattivi più di noi.

Ci ritroviamo tra di noi,pecore, camuffate da lupi.

Sappiamo tutti che è una maschera, e che il nostro è un belare che scimmiotta l’ululato, ma preferiamo giocare la parte in modo più o meno ridicolo che ammettere, nonostante l’ovvietà, di essere pecore.

Senza sapere che, invece, un branco di pecore unito caccia via più lupi di quanti ne cacci una sola con una maschera messa di sghembo, mentre le altre stanno a guardare.

BZ - settembre 19, 2013

Non sarebbe male in effetti poter deporre le maschere, almeno sporadicamente.
E se da un lato sono purtroppo convinto che in qualche frangente siano funzionali alla sopravvivenza, o almeno a limitare il doler di terga, dall’altro lato vorrei davvero impegnarmi a non essere così ispido e autarchico come la parte degenere di me vorrebbe.
Pecora o lupo poco mi importa, se la mattina guardandomi nello specchio mi riconosco.
Ma comincio a rendermi conto, nonostante la cronaca quotidiana di amenità che passa per comunicazione, di come ci sia una parte bella nelle persone che varrebbe la pena di azzardarsi a scoprire.


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