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Be Yourself luglio 7, 2013

Posted by brzo in Change!.
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Come sempre fatico ad organizzare l’agenda in modo da farci stare tutto l’essenziale, e quando mi capita di fallire miseramente nell’intento può talvolta capitare la fortuna di veder arrivare in soccorso gli amici.
Quindi oggi ospito qui un guest post arrivato pochi minuti fa dal beffardo cacciatore di teste Vittorio, curiosamente dotato di penna tagliente e mano ferma.
Genufletto e ringrazio!

Prendo spunto da un paio di fatti ultimi per una riflessione su un improbabile parallelismo, che da qualche giorno mi tarla il cervello con i suoi mille cunicoli di dubbi.
Ultimamente, per lavoro, ho avuto l’occasione di incontrare parecchi laureandi/neolaureati, e di far loro un colloquio per dar loro una possibilità di farsi conoscere dalla grande azienda.
La prima reazione, quando questo incarico mi è stato dato (anche se in realtà in parte me lo sono arraffato, per togliermi un po’ dalle solite attività di ufficio), è stata di goduria.
Dopo 6 anni e un pezzo di lavoro, finalmente cominciavo a gustare quell’aura di professionalità e grandeur che un “responsabile delle risorse umane” fa quando si presenta per colloquiarti.
E per assaporare fino in fondo gli sguardi intimoriti dei candidati (che hanno, ormai, dai 7 ai 9 anni meno di me….) mi sono anche preparato con metodo Stanislavskij da George Clooney nelle vesti del tagliatore di teste.

Vestito buono, cravatta ricercata, cromia bleu/bianco, scarpe Moreschi e Tissot.
Per farci capire, l’idea da trasmettere era quella del: “ok, sono quello cazzuto. Vediamo che sai fare.”
Partito con le migliori intenzioni professionali (scovare il Maradona dei candidati), e con un pizzico di arroganza e sadismo (sedersi dall’altra parte della scrivania a parlare con chi non ha mai visto il mondo del lavoro a me fa capire il detto siciliano “cumannari è megghiu ca futtiri”), mi son ritrovato a fare da amorevole padre a ragazzini (mentalmente parlando) che sembravano caduti dal pero.
E che, invece che darmi la soddisfazione attesa, hanno risvegliato in me un dubbio atavico.
Cosa vogliamo essere?

Su quasi una ventina di candidati nel giro di un paio di giorni, nessuno ha risposto alla fatidica domanda “cosa vuol fare da grande?” con un’aspettativa, foss’anche “voglio essere il primo pornodivo a girare un video dendrofilo nello spazio” (che per lo meno avrebbe dimostrato grande creatività del candidato: ve lo immaginate Buzz Aldrin copulare con un olmo nella ionosfera?).
La risposta media (tolte le classiche “acquisire competenze per fare un lavoro di mio interesse, nel quale raggiungere anche qualche obiettivo di carriera”, o “trovare il giusto equilibrio tra professione e interessi personali”, che ammetto di aver subito smontato) è stata: non lo so in realtà.
Ma vorrei fare qualcosa che davvero mi piace, e spero che il lavoro me lo insegni.
E qui, mentre cercavo di stimolare i candidati di turno a darmi un’idea più concreta di cosa volessero essere, dentro di me è cresciuto il dubbio.
Siamo sicuri di fare qualcosa che davvero ci rappresenta?
O, per meglio dire: stiamo operando per mettere in atto noi stessi? o facciamo solo quello che il nostro ego sociale ci impone di fare di volta in volta?
Ammetto di non aver trovato la risposta.

Ma, almeno, ho capito come affrontare il problema, ripensando a quando, da piccolo, facevo i primi saggi di pianoforte.
Il mio ricordo più bello legato alla mia fase prevalentemente musicale (nella quale ancora credevo di poter diventare un grande pianista) è un’esecuzione pubblica, davanti ad un centinaio di persone (chiamarlo concerto sarebbe da tronfi…).
Non portavo il brano più difficile del repertorio, ma quello che credevo essere (solo) un po’ più d’effetto, e di facile presa sul pubblico.
Avevo 10 anni, suonavo da 2, e portai Per Elisa, di Beethoven.
Ricordo ancora (suonavo tra gli ultimi) di essere arrivato allo sgabello con un po’ di preoccupazione, perché sì, il pezzo lo conoscevo a memoria, ma tutta quell’attesa mi aveva da un lato fiaccato, dall’altro fatto perdere un po’ di certezza nelle mie capacità.
Appena partii, invece, successe una cosa incredibile.
Un po’ per evitare la tensione che in altri concerti mi ha poi teso trappole, un po’ per la stanchezza, lasciai, come si dice in gergo, andare le mani.
Svuotai la mente sostanzialmente (a 10 anni riesce ancora bene), e un po’ mi rassegnai a fare un’interpretazione a macchinetta.
Il risultato fu, invece, una delle migliori esecuzioni che io abbia mai fatto, e la sensazione profonda, per una volta, di aver lasciato che quello che volevo fare si impadronisse di me e operasse al posto mio.

A 20 anni di distanza, con un lavoro che mi soddisfa, una famiglia appena creata e e le prime esperienze di vita stanziale, non credo di poter dire di aver mai più provato quello che provai quel giorno.
E mentre la mia mente divaga su questi temi, di colpo ritorno nel mio vestito bleu, nelle mie Moreschi lucide, con lo sguardo distaccato su un candidato che biascica qualcosa.
Mi riconcentro, e sento il ragazzo dire: “posso permettermi una domanda?”
“dica”
“beh.. io non ho mai lavorato, ma lei… dopo 6 anni… non so come chiederglielo, dunque… cosa ti insegna il lavoro?”
“A essere quello che sei figliolo. E se non te lo insegna, cambia lavoro. Fai altro, foss’anche l’astronauta innamorato delle betulle” avrei voluto rispondergli.
Ma il mio ego sociale ha sfornato una risposta diplomantica.

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